Apr.11

Oltre lo schermo

Oltre lo schermo

Come i nuovi strumenti digitali possono stimolare la crescita dei bambini attraverso la relazione e mediazione dell’adulto

“Hai mai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero? E se da un sogno così non dovessi più svegliarti? Come potresti distinguere il mondo dei sogni da quello della realtà?” (Morpheus in Matrix)

Ogni schermo è una cornice. Lo è la cornice di uno schermo televisivo, del cinema, di un dispositivo digitale. Lo è anche la cornice di una fotografia o di un dipinto. Se pensiamo a certi grandi affreschi del Rinascimento, come la Scuola di Atene di Raffaello o la Cena in Casa Levi di Paolo Veronese, è difficile non pensare di avvicinarsi e penetrare lo spazio prospettico fino quasi ad escludere dalla nostra vista perfino la cornice stessa e perderci dentro l’opera. Lo è la cornice di un film al cinema dove si replica il rituale del sogno (Musatti, 1971; Metz, 1977). Lo è la televisione, capace nel 1969 di teletrasportare 600 milioni di spettatori sulla Luna.

La cornice è un confine di demarcazione e connessione tra mondi ed esperienze diverse, il limite di una finestra che, seppur collocata concretamente negli spazi della nostra realtà ordinaria, si apre discretamente a nuove dimensioni spazio-temporali, verso le quali trasferiamo i nostri sensi e possiamo vivere esperienze come se fossero reali. La cornice esclude tutti gli elementi che stanno al di fuori per concentrare l’attenzione dello spettatore esclusivamente sulla rappresentazione di quelli in essa contenuti. Nei secoli e nella sostanza il principio alla base della cornice non è cambiato: le illusioni dell’arte, della fotografia e del cinema non sono meno illusorie di quella di un videogioco o di una storia interattiva per bambini. Sono illusioni e in quanto tali allo stesso modo rappresentative della realtà, una dimensione sensoriale in cui i confini percettivi si confondono e ci permettono di vivere un’esperienza come se fosse reale o, diremmo meglio, virtuale.

E se questo processo a qualcuno può evocare uno scenario alla Matrix, a me rievoca invece il momento in cui i bambini giocano a “fare finta che”. I bambini sono più bravi dei grandi a rimettersi in gioco, proiettarsi in una situazione, in un personaggio, togliendosi così lo sfizio di riuscire ad affrontare nel mondo del possibile con naturalezza e semplicità anche qualche problema sull’esistenza e la condizione umana. Il “fare finta che” è la dimensione in cui un loro piccolo-grande problema, una preoccupazione, un disagio o una grande gioia interiore, vengono messi in scena davanti ai loro occhi: li possono vedere, li possono simulare e sperimentare, elaborare e metabolizzare in un gioco scomponibile e immaginario di ruoli e situazioni. Inventare storie e illusioni a questo serve. E le storie finiscono così per diventare esperienze reali. Le storie sono esperienze tanto per il bambino quanto per l’adulto, anzi è la dimensione all’interno della quale si incrociano e si mettono in relazione le esistenze di entrambi, in tutti i loro aspetti problematici e senza sconti: l’amore, l’abbandono, la gelosia, la separazione, il bisogno di essere amati, la paura, la vecchiaia, la morte. Come dice Calvino nell’introduzione alle sue “Fiabe italiane”, le fiabe sono vere perché forniscono in forma simbolica una spiegazione generale della vita. Fin dai miti antichi le storie sono il luogo in cui l’esperienza del singolo incrocia ciclicamente quella della sua comunità sociale, memoria che viene rimessa in scena per essere rielaborata alla luce degli avvenimenti e della storia comuni e tramandata alle generazioni successive. E così è stato fino agli inizi del secolo scorso quando alla sera le famiglie contadine del paese, in cerca di un po’ di calore, si ritrovavano nelle stalle per chiacchierare e raccontare storie. Quello che sapeva leggere, il “contastorie”, raccontava una storia o un libro a puntate. Gli altri, sia adulti che bambini, aggiungevano al racconto le loro esperienze personali e questo rito nel tempo generava una consapevolezza e una coscienza sociale comune. Questa usanza in Veneto era chiamata “Far filò”, luogo dove le donne filavano la lana, ma anche dove si tessevano storie, trame e si costruiva un tessuto culturale comune (non è un caso che la parola latina textum, da cui “testo”, significhi proprio tessuto). La cornice del filò quindi era un luogo di esperienza dove percorsi di lettura, montaggi, equilibri della memoria venivano ricomposti e ricondotti a miti e storie comuni, grazie alla relazione che si instaurava tra il contastorie e la sua platea. Una sorta di cornice che oggi potremmo a buon diritto chiamare interattiva: dove uno o più elementi collaborano nella tessitura di nuovi percorsi, ma dove il senso della trama sta nella relazione.

Oggi il filò non esiste più e in compenso viviamo in un mondo iperconnesso. Questo è un dato di fatto, ma può rappresentare per i bambini una grande opportunità invece che un grande rischio. Non è fondamentale quale sia il “contastorie” tecnologico di turno – se un libro, la televisione, un computer, un tablet o uno smartphone – ma se le storie si parlano, se possono essere vissute come esperienza comune, dove mettere in gioco le proprie esistenze nel rito del fare-finta-che dei bambini. Il problema non è la cornice, ma in che misura quella cornice può tradursi in trama di relazione, scambio, apprendimento comune, non semplicemente connessione.

Questo pone l’attenzione, nei termini di un utilizzo consapevole dei dispositivi digitali con i bambini, sulla riformulazione di uno dei concetti più dibattuti negli ultimi decenni da ricercatori ed esperti difronte all’emergere di nuovi media: quello del co-viewing o mediazione attiva, di norma usato in psicologia per indicare quando un bambino è impegnato a guardare un contenuto su uno schermo assieme a un genitore o un adulto che si prende cura di lui. Rispetto alle sue origini (Ball,1970), il termine assume oggi diversi significati e connotazioni, soprattutto in seguito alla diffusione dei nuovi dispositivi digitali.

La ricerca scientifica individua tre dinamiche attraverso le quali il co-viewing è in grado di facilitare l’apprendimento dei bambini.

Nel primo caso il compito dell’adulto è quello di mantenere l’attenzione del bambino focalizzata sui contenuti e gli elementi principali di ciò che viene raccontato a video, indicando gli elementi sullo schermo e contestualizzandoli. L’attenzione dell’adulto è un modello per il bambino: è stato verificato, per esempio, che lo sguardo dei bambini spesso si rivolge allo schermo proprio in risposta allo sguardo dell’adulto.

Nel secondo caso l’adulto offre un stimolo diretto all’apprendimento del bambino durante il co-viewing, intervenendo di volta in volta con delle domande per assicurarsi che il bambino abbia compreso il messaggio che è stato dato o per approfondire il significato delle parole. L’adulto può aiutare il bambino a contestualizzare le informazioni con quelle che già conosce, stimolandolo a creare connessioni tra le cose che vede nello schermo e quelle che vede nella realtà.

Da ultimo, l’adulto può trasmettere dei feedback naturali al bambino in risposta alle sue azioni sul device, attraverso reazioni e atteggiamenti spontanei, come un’espressione, uno sguardo, un moto di incoraggiamento. Questi comportamenti indicano al bambino che l’adulto ha delle informazioni da condividere con lui e rendono il processo di apprendimento più efficace.

Tuttavia, nonostante la ricerca abbia dimostrato che la pratica del co-viewing è in grado di accrescere maggiormente l’apprendimento dei vocaboli e la comprensione del testo rispetto alla visione e consultazione autonoma del bambino, i genitori continuano a guardare alla lettura digitale come a un’attività che i bambini possono fare da soli.

Dall’indagine “#NatiDigitali2014” (AIE, FattoreMamma, Mamamò, 2014) emerge infatti chiaro il fatto che i dispositivi digitali vengono impiegati dai genitori per intrattenere i bimbi quando non possono occuparsi di loro e soprattutto in viaggio e in vacanza. In pratica i genitori oggi non supportano l’apprendimento dei loro figli su un dispositivo digitale alla stessa maniera in cui lo supportano su un libro attraverso il co-reading. E se il momento più importante in cui genitori e figli possono condividere un’esperienza di co-viewing è quello della sera prima di addormentarsi, quello diventa il momento in cui i genitori prediligono invece il sano vecchio libro di carta, ritenuto il mezzo più efficace all’addormentamento, nonostante alcune esperienze di storie interattive per bambini propongano modelli di lettura innovativi studiati allo scopo e dai risultati efficaci, grazie all’ausilio di melodie, effetti sonori e palette di colori progettate per rilassare il bambino e accompagnarlo gradualmente verso un sonno sereno (p.e. “Sogni d’Oro” di Fox & Sheep e “Riccioli d’Oro” di Koo-koo Books).  In questo senso è chiaro come sia necessario prima di tutto promuovere la formazione degli adulti al co-viewing e ai benefici che ne può trarre la crescita e l’apprendimento dei loro bambini attraverso la loro partecipazione attiva.

Non sempre, tuttavia, è conveniente che l’adulto occupi attivamente tutti gli spazi di apprendimento del bambino: ogni bambino ha diritto anche a spazi di self-directed learning o apprendimento auto-diretto. Il self-directed learning non si focalizza sul risultato, ma sulle competenze e le risorse che il bambino autonomamente individua e utilizza per costruire da solo il proprio apprendimento. Da questo punto di vista, non è solo un incentivo alla crescita, ma anche un traguardo per l’autonomia e l’autostima personali.

Anche un videogioco in questo senso può essere utile ad arricchire il bagaglio cognitivo dei bambini, soprattutto se si tratta di un gioco di simulazione che consente loro di confrontarsi direttamente con l’esperienza reale e di attivare e mettere assieme immediatamente le loro conoscenze e competenze per arrivare di volta in volta a scoprire le diverse soluzioni per superare un problema. Compito dell’adulto, in questo caso, sarà più di “regista e osservatore, ruoli fondamentali per garantire quella giusta distanza che permette al bambino di conquistarsi il ruolo di maestro del suo apprendimento e all’adulto di essere un educatore attento e rispettoso del mondo interno del bambino, capace di prendersi cura di lui con più efficacia” (Mara Padovan, 2015). Rispetto ai media tradizionali la capacità di risposta dei media interattivi può anche offrire ai bambini un senso di soddisfazione personale e il loro utilizzo è più simile a quello dei giocattoli che non a quello passivo della televisione.
Dal punto di vista della simulazione oggi la tecnologia touch offre ai bambini esperienze di lettura e gioco per così dire, più “reali” e connaturate alle loro esigenze, attraverso gesti naturali e spontanei come muoversi, toccare, scivolare, spostare, sfogliare, lanciare, girare. È una tecnologia che abilita i bambini a espandere nel loro mondo reale la loro esperienza di lettura, narrazione, gioco in maniera sempre più invisibile e pervasiva, soprattutto se guardiamo alle potenzialità tecnologiche offerte oggi dalla realtà aumentata (AR). Un vantaggio evidente per il bambino, in questo caso, è la necessità di impegnarsi a organizzare l’attenzione: le risposte dei bambini sono necessarie al proseguimento della storia e il feedback dell’applicazione si adegua alle loro risposte, suggerendo, incoraggiando e adeguando di volta in volta il livello di difficoltà e le situazioni-problema sulla base delle competenze raggiunte dal bambino. In questo caso il sostegno dell’adulto può essere necessario da un lato per aiutare il bambino a comprendere il funzionamento dei dispositivi o i processi dell’applicazione, dall’altro per evitare la frustrazione e orientare l’esperienza verso i benefici previsti.

Non tutte le caratteristiche interattive del prodotto digitale finiscono tuttavia con l’offrire benefici. Un’esperienza utente progettata in maniera poco adeguata per esempio può togliere spazio al confronto tra genitori e figli e far convergere la loro attenzione più sulle meccaniche d’uso (p.e. individuazione delle zone attive) o su loop ludici che esulano dal contesto narrativo deconcentrando di fatto continuamente il bambino e riducendo di conseguenza le sue possibilità di apprendimento. Alcune ricerche sottolineano inoltre come la risposta da parte di un dispositivo rischi di innescare meccanismi di ricompensa del cervello in grado di generare assuefazione. Risulta evidente quindi l’importanza che riveste per editori e sviluppatori una progettazione attenta della user experience, centrata sulle esigenze educative e cognitive dei bambini, ma anche in grado di offrire ai genitori il giusto supporto e gli strumenti adeguati per gestire, adeguare e personalizzare l’esperienza di apprendimento.

 

Bibliografia di riferimento:

  • AIE, FATTOREMAMMA, MAMAMÒ, 2014. #NatiDigitali.Sondaggio 2014 sui libri digitali per bambini, URL: http://www.mamamo.it/news/natidigitali-i-risultati-della-ricerca.
  • BALL, S., 1970. The First Year of Sesame Street: An Evaluation. Final Report. Educational Testing Service, New Jersey, U. S. Tech. Rep. vol.3 III, pp. 1-439.
  • CHRISTAKIS, D.A., 2014. Interactive media use at younger than the age of 2 years. JAMA Pediatrics, 168, 399–400.
  • DEMERS, L.B., HANSON, K.G., KIRKORIAN, H.L., PEMPEK, T.A., ANDERSON D.R., 2012. Infant gaze following during parent-infant coviewing of baby videos. Child Development, 84, 591–603, 2012
  • GERGELY, G., EGYED, K., KIRAL, I., 2007. On pedagogy. Developmental Science, 10, 139-146.
  • GUIDOLIN, U., 2005. Pensare Digitale. McGraw-Hill, Milano.
  • GUIDOLIN, U., Koo-koo Stories, URL: http://www.kookoobooks.com/author/ugoguidolin
  • METZ, C., 1977. Psicoanalisi e cinema. Marsilio, Venezia.
  • MUSATTI, C. Scritti sul cinema, in Dario F. Romano (a cura di), Testo & Immagine, Torino 2000.
  • PARISH-MORRIS, J., MAHAJAN, N., HIRSH-PASEK, K., GOLINKO, R.M., COLLINS, M.F., 2013. Once upon a time: Parent-child dialogue and storybook reading in the electronic era. Mind, Brain, and Education, 7, 200–211
  • ROSIN, H., 2013. The touch-screen generation. The Atlantic, 56–65, aprile 2013
  • STROUSE, G.A., O’DOHERTY, K., TROSETH, G.L., 2013. Effective coviewing: Preschoolers’ learning from video after a dialogic questioning intervention. Developmental Psychology, 49, 2368–2382.
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About oogo

Conosciuto anche come Oogo, che era l'unico modo di far pronunciare il suo nome a un computer con i fonemi inglesi nel 1989, è affetto dalla sindrome di Peter Pan e ritiene che per essere Grandi non bisogna essere per forza grandi. Ha scritto un sacco di storie per i bambini digitali a partire da "Wolfgang il Cyberlupo" (Mondadori, 1995), ma solo una per i bambini di carta: "Sybo il mio amico stratosferico" (Edizioni Paoline, 2010). È Head Of Design e Partner di Koo-koo Books e insegna pure all'Università (Antropologia Culturale dei Media Digitali).

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